Prime riflessioni sullo schema di decreto legislativo in materia di licenziamenti e sul contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato “a tutele crescenti” (attuazione della legge delega n. 183 del 10 dicembre 2014).
Nel Consiglio dei Ministri del 24.12.2014 è stato approvato lo schema di decreto legislativo (il testo definitivo non risulta ancora emanato) inerente l’introduzione delle nuove norme sui licenziamenti e sul cosiddetto contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato “a tutele crescenti”, dando così una prima attuazione alla legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, in particolare per quanto riguarda i principi e criteri direttivi da quest’ultima previsti nel senso di:
- limitare la reintegrazione nel posto di lavoro alle sole ipotesi di licenziamento discriminatorio, di nullità del licenziamento e di alcune ipotesi di licenziamento disciplinare ingiustificato;
- escludere la reintegrazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo;
- prevedere un indennizzo economico predeterminato dalla legge, senza alcuna possibile valutazione discrezionale del giudice, ma collegato esclusivamente alla anzianità di servizio.
Ma veniamo ora alle norme di maggior rilievo che emergono dalla lettura del testo dello schema di decreto in questione, composto da 12 articoli.
L’art. 1 definisce l’ambito di applicazione delle nuove norme, stabilendo così che queste ultime si applicheranno solamente ai contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo, con la conseguenza che per tutti i contratti preesistenti alla detta, continuerà a trovare applicazione l’art. 18 della legge n. 300/1970 (statuto dei lavoratori).
Questa situazione consentirà pertanto alle due distinte discipline (nuovo decreto e “vecchio” art. 18) a coesistere potenzialmente per lungo tempo, ossia fino all’esaurimento naturale di tutti i contratti di lavoro stipulati fino ad oggi, ma comporterà una distinzione di regole e di tutele per i lavoratori a fronte di uno stesso licenziamento (si pensi all’ipotesi di licenziamenti collettivi di lavoratori assunti sia prima sia dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo: per i primi si applicherà la disciplina di cui agli artt. 18 della legge 300/1970 e 8 ella legge n. 604/66, mentre per i secondi si applicherà la nuova disciplina).
La situazione è poi ulteriormente complicata dal fatto che il secondo comma dell’art. 1 in esame stabilisce che la nuova disciplina si applica anche ai lavoratori assunti precedentemente dall’entrata in vigore del decreto legislativo qualora il datore di lavoro sia passato da un organico di 15 o meno dipendenti a un numero superiore, in conseguenza di assunzioni effettuate successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo.
L’art. 1, inoltre, dispone che la nuova disciplina si applichi solo agli operai, impiegati o quadri. Tale espressione, che può apparentemente sembrare pleonastica, invero mira ad escludere espressamente i dirigenti dall’applicazione delle nuove norme, per i quali continueranno ad applicarsi i primi te commi dell’art. 18, anche per i contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo.
Ulteriore importante novità è rappresentata dalla scomparsa, nell’individuazione del campo di applicazione della norma, di ogni riferimento dimensionale della azienda. La nuova disciplina, per i nuovi contratti, si applicherà indistintamente a tutte le aziende, con più di 15 dipendenti o con meno.
Un accenno va fatto al pubblico impiego. All’indomani dell’emanazione dello schema di decreto legislativo i media hanno affrontato il dibattito tra esponenti politici circa l’applicabilità delle nuove norme ai dipendenti pubblici. Dal punto di vista meramente tecnico, salvo eventuali correttivi che potranno essere introdotti, non si può non evidenziare come non sussistano ragioni per sostenere che i dipendenti della p.a. siano esclusi dall’ambito di operatività della nuova disciplina.
L’art. 2 disciplina il licenziamento discriminatorio, nullo ed intimato in forma orale. La norma riproduce nella sostanza i primi 3 commi del vigente art. 18, introducendo alcune modifiche, in particolare abbandonando l’elencazione casistica delle ipotesi di nullità e facendo riferimento alle sole ipotesi di “licenziamento discriminatorio ovvero riconducibile agli atri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”, ovvero ai licenziamenti intimati in forma orale.
In tali casi, resta la sanzione della reintegrazione, oltre al risarcimento del danno consistente in una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia eventualmente per lo svolgimento di altre attività. In ogni caso l’indennità non può essere inferiore alle 5 mensilità.
L’art. 3 è la disposizione forse di maggior interesse e regola le fattispecie di licenziamento per giustificato motivo o per giusta causa, in quanto prevede una tutela esclusivamente indennitaria per il lavoratore quando sia accertata in giudizio l’illegittimità del licenziamento in quanto non ricorrano gli estremi del giustificato motivo oggettivo, o del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa. In tali casi, la tutela è solamente quella risarcitoria, commisurata, senza alcuna discrezionalità del giudice sul punto, a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, moltiplicate per gli anni di servizio (quindi, ad esempio, se un lavoratore ha 5 anni di servizio, l’indennità sarà di 10 mensilità: 2 mensilità x 5 anni). In ogni caso l’indennità non potrà mai essere inferiore a quattro e superiore a 24 mensilità. Il successivo art. 8 dello schema di decreto stabilisce che ai fini del computo dell’anzianità di servizio si debba tener conto proporzionalmente anche dei mesi di servizio e della frazione di mese.
Ora, il secondo comma dell’art. 3 stabilisce che la tutela reintegratoria potrà essere applicata “esclusivamente” nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa “in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
La norma ha una portata significativa e, superando le incertezze giurisprudenziali sorte a seguito della riforma Fornero dell’art. 18 (legge n. 92/12), si colloca nel solco tracciato da una recente sentenza della Cassazione (n. 23669 del 6.11.2014) con la quale la Suprema Corte aveva puntualizzato come la reintegrazione nel posto di lavoro debba essere disposta solo in relazione alla valutazione circa la sussistenza/insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore e non del fatto “giuridico” (ossia della corrispondenza dell’evento con una ipotesi in cui sia prevista dai CCNNLL la sanzione disciplinare del licenziamento, piuttosto che una sanzione di tipo conservativo).
Naturalmente, per insussistenza del fatto materiale contestato, il legislatore intende riferirsi alle ipotesi in cui all’esito dell’attività istruttoria esperita, il fatto che il datore di lavoro ha contestato al lavoratore (per esempio un furto o assenza ingiustificata) deve ritenersi non sussistente o perché non si è materialmente verificato, ovvero perché, seppure occorso, non è imputabile al lavoratore (ad esempio perché commesso da altri soggetti).
Sotto il profilo tecnico, il legislatore ha optato per una scelta sicuramente chiara e precisa. Forse potrebbe creare qualche incertezza applicativa la formulazione per cui debba essere “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale” in particolare per quanto riguarda l’onere della prova. Da un lato, infatti sembrerebbe che sia richiesta una prova diretta circa l’insussistenza del fatto, con ciò imponendo al lavoratore un particolare onere probatorio sul punto, senza far ricorso a presunzioni o prove indirette. Da un altro lato, tuttavia, ben potrebbe argomentarsi come il riparto dell’onere probatorio non risulti mutato a seguito di tale nuova disciplina, restando in capo al datore dei lavoro il compito di provare la sussistenza della giusta causa di licenziamento e dunque provare, tra gli altri aspetti, la sussistenza del fatto materiale contestato.
Non resta che attendere le applicazioni concrete che effettueranno gli operatori del diritto.
Ad ogni modo, la tutela reintegratoria di cui al coma 2 del citato art. 3 prevede anche un indennizzo nella misura massima di 12 mensilità, maturato dal lavoratore dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegrazione.
Il comma 4 dell’art. 3 dispone che per i lavoratori assunti successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo non si applica la procedura di preventivo tentativo di conciliazione prevista dall’art. 7 della legge 604/66 (e introdotta dalla legge n. 92/12) per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo disposti da aziende con più di 15 dipendenti.
L’art. 4 disciplina le conseguenze di vizi meramente formali e procedurali del licenziamento, in tal caso prevedendo una tutela indennitaria corrispondente alla metà di quella di cui all’art. 3, primo comma. In tal caso l’indennizzo minimo è di due mesi, e quello massimo di 12.
L’art. 6 introduce, con l’evidente finalità deflativa del contenzioso, la possibilità che il datore di lavoro offra a titolo conciliativo, con assegno circolare, un importo pari ad una mensilità per ogni anno di servizio, in ogni caso in misura non inferiore a due mensilità e non superiore alle 18 mensilità (somme ridotte della metà per le imprese con meno di 15 dipendenti). La novità principale consiste nel fatto che l’offerta deve essere fatta entro 60 giorni dall’intimazione del licenziamento e che l’importo offerto è esente da imposte.
La limitazione dell’entità dell’importo sopra indicata è evidentemente collegata all’esenzione fiscale. Ben potrebbe il datore di lavoro offrire una somma maggiore alle 18 mensilità, ma l’esenzione fiscale sarebbe comunque limitata agli importi massimi indicati dalla norma.
L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto di lavoro e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento.
L’art. 9 dispone che per i dipendenti con meno di 15 dipendenti rimane la tutela esclusivamente indennitaria (come del resto già lo è tuttora), ma con la precisazione che non si applica l’art. 3, comma 2, con la conseguenza che anche nei casi di licenziamenti disciplinari in cui risulti insussistente il fatto materiale contestato non è prevista la reintegrazione, ma solo il risarcimento del danno, pari ad una indennità ridotta alla metà rispetto a quella prevista per le aziende con più di 15 dipendenti, quindi non superiore alle 6 mensilità e, almeno così sembrerebbe, non inferiore ad una mensilità.
Conseguentmente, per i lavoratori dipendenti di piccole imprese, la tutela reintegratoria sussisterà solamente nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo o verbale (mentre, come abbiamo visto, per le imprese medio-grandi, resta l’ipotesi della reintegrazione a seguito di licenziamento disciplinare illegittimo per insussistenza del fatto materiale).
L’art. 10 introduce un’altra importante novità, relativamente ai licenziamenti collettivi, per i quali, fatta salva l’ipotesi (alquanto astratta) di licenziamento collettivo privo della forma scritta, per cui è prevista la reintegrazione, è prevista solo ed esclusivamente una tutela indennitaria, prevedendo l’applicazione a tali tipi di licenziamento dell’art. 3, comma 1, del decreto, cioè la tutela meramente indennitaria.
L’art. 12, da ultimo, prevede espressamente che ai licenziamenti disciplinati dal decreto legislativo in oggetto non si applichi più il rito di cui all’art. 1, commi 48-68, della legge n. 92/2012 (c.d. “rito Fornero”). La disposizione potrebbe apparire superflua in quanto il c.d. rito Fornero presuppone di per sé l’applicazione dell’art. 18 della legge 300/70 e non può essere applicato per domande diverse, quindi sicuramente le norme relative al decreto legislativo erano già fuori da tale ambito di applicabilità, tuttavia l’art. 12 in tal modo esclude ogni possibile incertezza sul punto.
Nondimeno, non si può non evidenziare che l’applicabilità delle nuove norme ai soli contratti stipulati dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo, mentre resta salvo l’art. 18 per i vecchi contratti, comporterà un possibile coesistenza anche norme processuali, oltre che di norme sostanziali, nel caso di un unico licenziamento plurimo o collettivo per soggetti assunti prima o dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo stesso.
Non sono comunque da escludere futuri interventi legislativi volti a coordinare e risolvere meglio tali problematiche.